Un freddo pomeriggio di fine novembre io e Paolo Cognetti ci siamo incontrati a Milano per bere un tè assieme.
Paolo arriva accompagnato dal fedele Lucky, che si muove al suo fianco in totale serenità.
Iniziamo subito a parlare di montagna: “qual è la tua valle del cuore, qual è la quota più alta raggiunta…” domande e risposte di chi nel profondo si conosce pur essendo al primo incontro.
La location dell’intervista è perfetta, LibrOsteria, un bellissimo bar che unisce due delle mie più grandi passioni, libri e cibo. Me ne innamoro.
Da Paolo traspare un animo deciso e fiero, e quasi mi sembra di percepire lo sguardo di un uomo inquieto ma felice delle proprie scelte. Inizio subito con le mie curiosità:


Ne “Il ragazzo selvatico” descrivi molto bene l’adattamento alla vita di montagna. Se una persona oggi dovesse fare la tua stessa scelta di lasciare i comfort della vita moderna per ritirarsi in baita, tu cosa consiglieresti di fare, forte dell’esperienza che hai vissuto?
E’ stato difficile. Nel libro ho usato un po’ di ironia per raccontare le mie difficoltà e non drammatizzare troppo, ma al di là dell’incanto del luogo, l’impatto con la solitudine è forte.
Noi non siamo fatti per stare soli, non credo che l’eremita sia una persona felice.
Thoreau ad esempio, nei suoi scritti non nasconde la voglia di parlare con gli altri, di litigare anche.
Lassù viene tanta voglia di ospitare. C’è quel nuovo nido a cui ti sei legato e vorresti che i tuoi amici fossero lì.
I momenti più belli sono stati proprio quelli in cui qualcuno è venuto a trovarmi, perché condividevo con loro una parte di me come il raccolto del mio giardino o il calore della legna che ho tagliato personalmente.
La scelta di passare anche solo un giorno senza incontrare nessuno, senza linea telefonica, è molto radicale nei nostri tempi. La verità è che avrei voluto subito scappare.
Sono rimasto solo perché ho pensato che se tenevo duro forse poi qualcosa di bello sarebbe successo.
Questa scelta così forte ha cambiato qualcosa in te?
Mi sono abituato alla solitudine, che significa raggiungere una grande concentrazione. Questo ha provocato dei danni quando poi mi sono ritrovato di nuovo con gli altri. Mi dicevano “perché non parli mai? Non sei contento di rivederci?”.
Non sono mai stato una persona molto aperta, la vera sfida per me non è ogni volta adattarmi ad uno stile di vita diverso, ma riabituarmi alla compagnia…
In parte ti capisco, mi succede soprattutto dopo i lunghi viaggi, quelli particolarmente intensi.
Quando ti trovavi in solitudine e stavi male, come facevi “a sopravvivere”?
Era difficile soprattutto la sera, la notte, quando ero costretto a stare in casa. Il buio non mi piace. Di giorno invece uscivo a camminare. Fare fatica, salire in montagna è stato una grande medicina per tutto.
Mario Rigoni Stern diceva che “nel bosco non si è mai soli” e credo di capire che cosa intendesse, in montagna mi sento circondato dalla vita, è la casa il luogo della solitudine.
Ti sei definito una persona introversa, quindi la domanda successiva sorge spontanea. Come hai vissuto il successo conquistato con “Le otto montagne”?
Con entusiasmo ma anche con difficoltà. L’entusiasmo perché, per esempio, il successo mi ha permesso di organizzare un festival in montagna che è un’esperienza molto bella. La difficoltà soprattutto con le persone: non ho problemi a parlare in pubblico, ma quando dopo i discorsi i lettori si fermano a parlare con me, anche solo per dirmi quanto mi vogliono bene e aspettandosi qualcosa da parte mia, mi lasciano una sensazione strana. Questo succede perché io ho condiviso una parte di me con loro, ma per me restano degli sconosciuti e per quanto sia felice di aver saputo trasmettere loro qualcosa, è un rapporto del tutto sbilanciato e non può diventare di reciprocità.
L’anno del Premio Strega mi trovavo le persone sotto casa e questo andava a interferire nei rapporti coi miei amici e con la mia compagna. Di recente sono tornato felicemente a una vita più appartata. Ho detto tanti no, forse ho fatto arrabbiare persone risultando antipatico, ma sono tornato a una vita che mi piace di più, la mia.


Parlando di stile di vita, com’è la tua giornata tipo in montagna?
Leggo, scrivo, cammino, faccio lavori intorno a casa come tagliare la legna, vado a cercar compagnia al bar con gli amici. Sono contento se riesco a camminare 3-4 ore al giorno.
La giornata è tendenzialmente molto solitaria, ma non volendo più viverla come tale è nato il festival “Il richiamo della foresta”, grazie alla collaborazione con amici con cui
ho istituito un’Associazione che vive da tre anni. L’ambiente è quello del bosco, gli ospiti sono gli amanti della montagna che possono mettere la loro tenda per tre giorni e vivere nello spirito più semplice e stimolante possibile.
A luglio 2020 apriremo un rifugio con circa 12 posti letto, dove organizzeremo una programmazione culturale fatta di concerti, spettacoli teatrali, incontri con alpinisti, scrittori o persone legate alla montagna.
Con il nuovo rifugio passeremo dai tre giorni di festival ad una vera rassegna che durerà, nelle intenzioni, tutta l’estate.
Sarà bello radunare tanti amanti della montagna. Ti senti critico con le persone che non capiscono questo ambiente?
Con gli sciatori sì. Non è per la disciplina sportiva in sé, perché anche con chi va in mountain bike non mi sento affine, ma fanno una cosa che non rovina l’ambiente. Per cui va bene, si è liberi di vivere la montagna come si vuole purché non la si rovini, invece per creare le piste da sci viene devastato il paesaggio, si lavora tutto l’anno per gli impianti di risalita e innevamento, la montagna è traforata di condutture che servono per sparare la neve artificiale.
La devastazione mi rattrista. Il Monte Rosa è ormai tutto circondato di stazioni sciistiche, strade, piste, impianti vecchi e nuovi. Chi costruisce non si preoccupa di portare via ciò che non viene più utilizzato e la montagna è cosparsa di ruderi e rottami. Sono posti da cui sto alla larga.
Una riflessione che appoggio in pieno. Pensi che “Paolo bambino” sarebbe orgoglioso di “Paolo adulto”?
Non so, ero un bambino molto amato, stimato dai miei genitori, da mio padre in particolare. Mia madre era più affettuosa e meno esigente. Lui invece era severo ma aveva grandi aspettative su di me e credo mi abbia trasmesso questa fiducia, questa ambizione di puntare sempre in alto. Infatti io mi sono dedicato al sogno più sfrenato che ho trovato, quello di diventare uno scrittore come i miei eroi di ragazzo.
Invece da bambino non pensavo di fare questo, piuttosto il matematico o l’alpinista.
Ho ancora il grande desiderio di costruire qualcosa di bello per me e per chi ho attorno, per stare bene insieme. Non sento più l’esigenza di arrivare a un risultato individuale, forse perché l’ho già raggiunto e non mi interessa ora pormene un altro, vorrei piuttosto una vita e un luogo dove stare bene con me e con gli altri.
Individuare un luogo che ci faccia stare bene è importante per la propria realizzazione.
Quando scrivi prendi ispirazione da ciò che hai attorno. Come fai a darti un ritmo, come hai fatto a renderlo un lavoro vero e proprio?
Non ho ancora trovato il metodo giusto e forse non lo troverò mai. La nascita di una storia cambia di volta in volta. Con “Le otto montagne” il racconto lo avevo già ben definito nella mente e l’ho buttato giù nel giro di una settimana. Era una storia che mi portavo dentro da tanto e faceva parte della mia vita.
Ho iniziato a pubblicare intorno ai 20 anni e avevo il pensiero di “dove andare a prendere le storie”, mi sembrava di dover avere molta fantasia e capacità di invenzione ma ora so che non è così: di storie ce ne sono tante in attesa di essere raccontate, sia in me che nelle persone che conosco.
A 20 anni, semplicemente, si è vissuto ancora troppo poco. Il mio consiglio è di aspettare perché la vita stessa offrirà delle storie da raccontare, come hai visto anche tu.
Quale sarà il tuo prossimo racconto? Scriverai ancora di montagna?
Racconterò di una donna che vive a stretto contatto con la montagna e ha fatto una scelta di vita coraggiosa, ma credo che sarà l’ultimo romanzo per un po’.
L’uomo è in continua evoluzione e in questo periodo sento l’esigenza di parlare dei viaggi, del mondo, delle persone, della realtà.
Ho voglia di compiere viaggi che abbiano un senso profondo e che mi insegnino qualcosa di nuovo.
Il viaggio camminato che fai tu è bellissimo per questo, perché passa attraverso la fatica e diventa un’esperienza incredibile che ti senti addosso. Hai fame, sonno, ti fa male la schiena, impari a conoscerti.
E’ quello che cerco di trasmettere a chi mi legge, hai colto nel segno. Consigliaci un libro da leggere una volta finiti i tuoi (sviolinata).
Seguendo il mio percorso di lettore mi viene da consigliare “Sogni Artici” di Barry Lopez.
In questo periodo sto leggendo tanto di mondi e questo racconto parla del paesaggio artico con l’occhio di un naturalista ma anche di un poeta – il grande Nord non solo come luogo fisico ma anche del sogno e del desiderio, l’Artico come un luogo dove i sogni umani prendono forma.
Io e te possiamo capirlo bene perché per noi è lo stesso con la montagna, che forse non vediamo solo come un luogo fisico perché altrimenti parleremmo alla gente di alture con boschi e animali ma non può essere tutto lì, evidentemente c’è una dimensione di desiderio che noi investiamo su di lei.
Io credo che la montagna sia la metafora della vita. Uso spesso la frase “la vista più bella è dopo la salita più dura”, che possiamo interpretare come preferiamo in base alla situazione che stiamo vivendo. Anche i libri ci insegnano tante cose, soprattutto se letti nel momento giusto.
A tal proposito, so che il racconto che ti ha cambiato è stato “Into The Wild” di Jon Krakauer.
Sicuramente. Avevo 29 anni quando l’ho letto e mi ha cambiato tanto soprattutto per un senso di riconoscimento. Quando ho letto di Chris ho pensato di aver trovato un fratello ed è stata una grande fonte di ispirazione proprio perché sentivo che una persona a cui assomigliavo tanto aveva fatto qualcosa che forse potevo fare anche io, a modo mio. Così sono partito per la montagna e quest’anno a giugno ho chiuso il cerchio con un viaggio in Alaska fino al Magic Bus. Ci arrivano tanti ragazzi ogni anno, ci vogliono due giorni di cammino e c’è un fiume da guadare, non è per tutti.


Il tè con Paolo mi ha permesso di passare un piacevole pomeriggio a parlare di montagna e mi ha lasciato uno stimolo in più a continuare a camminare.
Da lui si percepisce una forza interiore, tanta energia e quel tipo di positività che si dona inconsapevolmente a chi ci circonda, ma anche un pizzico di malinconia celata, una ricerca costante di qualcosa che non è mai semplice da capire.
Sono grata a chi, come lui, condivide una parte intima di sé. Gli incontri, le scelte di vita alternative, permettono di ridefinire i propri orizzonti.
Concludo con le sue stesse parole, ringraziandolo per la gentilezza e con l’augurio di realizzare tutti i bellissimi progetti in cantiere.
“La gente tende a semplificare e idealizzare le scelte altrui, di me pensano che ho mollato tutto per vivere tra i monti in completa solitudine. Non è così. La realtà è che la mia vita è varia come quella di chiunque altro e spazia tra la montagna e Milano, due scenari ben differenti tra loro. I luoghi sono legati alle persone ed è con loro che cerco di stare bene.”
Marco Sacchi
Bravissima.
Un pomeriggio con Cognetti vale tutto il tempo trascorso con lui.
L’anno scorso sono stato per un paio di eventi al festival Il Richiamo della Foresta da lui organizzato in Val d’Ayas, in località Estoul.
Quest’anno purtroppo non so se verrà organizzato ma se ci fosse te lo consiglio.
Magari ci si vede, in attesa di poter ricominciare a camminare seriamente, sotterrato il virus !!!!!
Ciao
Marco
Marika
Che invidia Marco! Ci voglio andare da tempo ma c’è sempre qualcosa che me lo fa perdere e quest’anno che posso… non c’è il festival! 🙁
Marta
Bella questa intervista.
Si capisce la spontaneità e l’umanità di tutti e due.
Grazie
Marika
Grazie di cuore!